Gli "errori" sul libro "Noi, i ragazzi della zoo di Berlino"

Pubblicato da Redazione il giorno 20 Ottobre 2005

Difetti di vista o malafade cronica?

Lo scorso 26 giugno, Martini, webmaster di Allarme Scientology, ringraziando il "CESAP che ha messo a disposizione gli estratti", ha pubblicato sul suo sito alcune pagine del libro "Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino".

Neanche a dirlo, nel documento incompleto pubblicato da Martini, ossia la storia raccontata dall'autrice, l'ex-tossicodipendente Christiane F., mette in cattiva luce la comunità di recupero dalla tossicodipendenza Narconon e la Chiesa di Scientology.

Ma, conoscendo i "difetti visivi" di Martini e dei suoi soliti colleghi (CESAP, Alessia Guidi, eccetera), mi sono procurato una copia del libro, ormai quasi introvabile, e l'ho letto attentamente, sicuro che avrei trovato omissioni e inesattezze.

Infatti, puntualmente, emerge la tendenziosità della "informazione" di Martini: dal libro fanno capolino parecchie affermazioni dell'autrice (evidenziate in giallo nel documento cui si può accedere tramite il link qui sotto) chiaramente favorevoli al Narconon, ovviamente ignorate in toto dai signori del Cesap e da Martini.

Giudicate voi.


Estratti dal libro

"Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino"

"... Telefonai al Narkonon e mi dissero che mia madre era già andata a riprendere la mia roba. Anche lei dunque mi aveva abbandonato. Questo mi rendeva furiosa. Adesso volevo dimostrarlo a tutti, volevo dimostrare che ce l'avrei fatta completamente da sola.

Andai al Narkonon e loro mi ripresero. Partecipai alle sedute di terapia come se fossi invasata. Facevo tutto quello che mi dicevano. Diventai una vera scolara modello e di nuovo potevo andare alla macchina della verità e l'indicatore non si mosse mai quando dicevo che una seduta mi era un sacco servita. Pensai: adesso ce la fai. A mia madre che era venuta e prendere le mie cose, non telefonai. Mi feci prestare della roba. Portavo mutande da ragazzo. Ma non me ne importava niente. Non volevo pregare mia madre di riportarmi le mie cose.

Un giorno mi telefonò mio padre: "Salve Christiane. Ma dimmi un po': dove diavolo sei finita" Ho saputo per caso proprio adesso dove ti trovi."

Dissi: "Trovo eccezionale che tu una volta tanto ti preoccupi di me".

Lui: "Ma ci vuoi rimanere da questa strana setta?"

Io: "Certo assolutamente"

Mio padre tiro prima un lungo sospiro, poi chiese se volevo andare a mangiare con lui e con un suo amico. Dissi: "Si, va bene".

Mezz'ora più tardi mi chiamarono giù all'amministrazione e lì c'era il mo caro papà che non vedevo da mesi. Per prima cosa venne su nella stanza che dividevo con altri quattro. Disse: "Vediamo qui com'è". Era sempre stato un fanatico dell'ordine. E nella nostra stanza era proprio una bellezza, come dovunque nella casa. Sporca lurida e con le cose sparse dappertutto.

Poi volevano uscire per andare a mangiare, ed uno dei capi disse a mio padre: "Lei deve firmare una dichiarazione che riporterà qui Christiane".

Lui scattò, gridò che era il padre e che poteva decidere da solo dove stava sua figlia. Che ora mi avrebbe portata con lui e che sua figlia al Narkonon non ci sarebbe più tornata.

Io scappai nella stanza delle sedute e gridai: "Voglio rimanere qui, papà! Non voglio morire! Per piacere, papà, lasciami stare qui!".

La gente del Narkonon, che era tutta accorsa per le grida, mi appoggiava. Mio padre andò via urlando: "Adesso vado a chiamare la polizia".

Sapevo che l'avrebbe fatto. Scappai fino alla soffitta e mi arrampicai sul tetto. C'era come una piattaforma per i camini. Mi ci accoccolai sopra al gelo.

Arrivarono davvero due pantere. I poliziotti, assieme a mio padre, ispezionarono la casa da cima a fondo. I capi del Narkonon anche mi chiamavano perché gli era presa paura. Ma sul tetto nessuno mi trovò. I poliziotti e mio padre se ne riandarono.

Il mattino dopo telefonai a mia madre in ufficio. Mi venne subito da piangere e le chiesi: "Ma cosa è successo?".

Mia madre aveva una voce completamente fredda e mi disse: "Quello che ti succede mi è assolutamente indiffferente".

Dissi: "Non voglio che papà mi porti via di qui. Sei tu che hai la mia tutela. Non puoi mollarmi così. Adesso resto qui, non scappo più. Te lo giuro. Ti prego fa qualcosa perché papà non mi porti via. Devo rimanere qui, mamma, per davvero. Altrimenti muoio, mamma, credimi.".

Mia madre era veramente spazientita e disse: "No, non se ne parla proprio". Poi riattaccò il telefono.

Sulle prime ero completamente distrutta. Poi mi montò di nuovo la rabbia. Mi dissi: "Che andassero tutti a fare in culo. In tutta la mia vita non si sono occupati di te. E adesso ti stanno intorno solo perché gli è venuto il ticchi, questi imbecilli, che hanno sempre sbagliato tutto. Questi porci che ti hanno fatta cedere così in basso. La madre di Kessi si è preoccupata che sua figlia non andasse a finire nella merda totale. E questi stronzi dei tuoi genitori credono improvvisamente di sapere quello che è bene per te.".

Chiesi di fare una seduta straordinaria e mi piacque da morire. Volevo rimanere al Narkonon e poi forse diventare un membro della scienza scientista. In ogni caso nessuno mi doveva portare via di lì. Non volevo farmi continuare a distruggere dai miei genitori. Questo era quello che pensavo, presa da un odio totale.

Tre giorni più tardi mio padre ritornò. Dovetti andare giù all'amministrazione. Mio padre era tutto calmo. Disse che doveva andare con me all'Ufficio di assistenza sociale per via dei soldi che mia madre aveva pagato per il Narkonon e che doveva riavere indietro.

Dissi: "No, non ci vengo. Ti conosco papà. Sa vengo con te questa casa la vedo per l'ultima volta. E non voglio morire".

Mio padre mostrò ai capi del Narkonon un certificato. C'era scritto che lui aveva il permesso di portarmi via. Mi madre gli aveva dato l'autorizzazione. Il capo del Narkonon disse che non c'era niente da fare, che dovevo andare con mio padre. Non potevano tenermi lì contro la volontà di mia madre.

Il capo disse che non dovevo dimenticare i miei esercizi. Sempre confrontare. Confrontare era come una parola magica per loro. Si doveva confrontare tutto. Pensai: siete proprio degli imbecilli. Non c'è proprio niente da confrontare per me. Io dovevo morire. Non ci resisto proprio. Al massimo tra due settimane buco un'altra volta. Non ce la faccio. Da sola non ce la farò mai. Fu uno dei pochi momenti in cui vidi la mia situazione abbastanza chiaramente. Nella disperazione mi raccontavo tuttavia che il Narkonon sarebbe stato per me veramente la salvezza.

Piangevo per la rabbia e la disperazione. Non riuscivo assolutamente a frenarmi.

... [poche pagine più avanti]

Prima di andare dal Narkonon a casa, mio padre mi trascinò allo "Schluckspecht", la birreria che frequentava abitualmente alla stazione della metropolitana della Wutzkyalee. Voleva ordinare per me qualcosa di alcolico, ma io bevvi solo una bottiglia di succo di mele. Disse che dovevo smettere definitivamente con la droga se non volevo morire e io dissi: "Già, è proprio per questo che volevo restare al Narkonon".

Il juke-box suonava continuamente "Un letto nel campo di grano", un paio di giovani stavano al flipper e al tavolo da biliardo. Mio padre disse che erano dei giovani assolutamente normali. Che io avrei trovato rapidamente nuovi amici e mi sarei resa conto da sola quanto era stato stupido da parte mia prendere la droga.

Lo stavo appena a sentire. Ero incazzata nera a pezzi e volevo stare da sola. Odiavo tutto il mondo e il Narkonon per me era la porta del paradiso che mio padre aveva chiusa.